South Carolina Mood.

Il giorno scorre lento tra i granelli di sabbia di spiagge infinite.
Mare caldo, caldissimo mare che abbraccia, rincuora, protegge.
E questo Sole che non tramonta mai,
mentre gabbiani contro vento dispiegano le ali,
si rincorrono, e quasi sfiorano i tetti delle ville sulla costa.
Cauti i granchi risalgono la battigia mentre la spuma li ricopre,
e la risacca trascina via antichissime conchiglie.
South Carolina mood.
Non ho più provato la stessa pace, quella stessa disarmante quiete
che nella brezza della sera
si disperde tra i palmetti.

SouthCarolinaMood

Incroci.

Parole che scorrono da ogni lato. Un mondo di caratteri. Byte dopo byte. Appaiono sui monitor, sui cellulari, sulle tv. Informazioni, risate, frustrazioni, sentimenti, cinismo, menzogne, graffi, tentativi disperati di comunicare, di espiare il proprio io, di mettere all’asta ciò che si è. Ognuno banditore di se stesso. Ci si offre come in vetrina, chi a poco, chi come un oggetto prezioso senza nemmeno il prezzo esposto. Ma sotto c’è sempre un disegno. Un disegno comune. Un segno distintivo di questa era. Ogni carattere è un urlo, il disperato bisogno di farsi sentire, la necessità di trovare un interlocutore, qualcuno che ascolti in silenzio, che apprenda il significato profondo del nostro senso della vita e lo elevi a regola assoluta, verità indeclinabile, orgasmo dell’esistenza, pur di assicurarci che noi, sempre noi, solo noi, abbiamo capito tutto. Che noi, sempre noi, solo noi abbiamo colto lo sgangherato metodo di sopravvivenza urbana per stare a galla in questo vecchio selvaggio west che è la nostra società a LED. Questo temporale di parole che ogni giorno millimetro dopo millimetro sommerge i nostri occhi è la risibile dittatura dell’egocentrismo. E l’informazione necessaria, quella realmente fine a se stessa – senza fini occulti – soccombe impotente, perché ciascuno di noi ha sviluppato una personale elettormagnetica barriera di sfiducia, di considerazione microgravitazionale verso il mare di parole, racconti, storie, momenti di vita che forse non sono mai accaduti, sfoghi personali e non richiesti ma che siamo involotariamente chiamati ad ascoltare, ad accogliere e perfino ad empatizzare.
Quello che vedo, quello che sento, quello che sta accadendo è il crescere di un’infinita solitudine. Un allontanarsi indefinitamente nel tentativo sempre più disperato, sempre più affannoso, sempre più impegnativo di avvicinarsi. Una graduale rassegnazione al raccontarsi piuttosto che al farsi raccontare. Ad una paradossale confusione tra dio e devoto, il triste spegnersi dell’arte in quel particolare momento in cui il soggetto diventa il maldestro artista di se stesso.